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Agricoltura di città

Progetto orto urbano

L'agricoltura urbana rappresenta il collegamento concreto più diretto e antico tra realtà cittadina e cultura contadina. La manifestazione visibile di tale legame è rappresentata dagli ori urbani.
Si tratta, generalmente, di piccoli appezzamenti di terreno, in molti casi abusivi, coltivati direttamente dai proprietari o da regolari affittuari. Gli orti urbani, quando non sono regolamentati, si caratterizzano per la forma variabile, per le recinzioni ottenute con materiale di recupero e per la loro ubicazione in zone marginali delle città (sponde dei fiumi, aree limitrofe alle linee ferroviarie e alle grandi arterie stradali cittadine, aree abbandonate di proprietà demaniale o privata).
Accompagnando da sempre lo sviluppo e le trasformazioni urbanistiche della città permettono agli "orticoltori urbani" di mantenere un rapporto con la cultura contadina che, nell'immaginario collettivo, è vissuta come cultura delle origini.
Coltivazioni orticole erano presenti all'interno delle aree urbane italiane già dalla prima metà del XIX° secolo; tale presenza accompagnò lo sviluppo della città nei decenni successivi integrandosi alle trasformazioni urbanistiche che in quegli anni caratterizzarono molte di esse, in particolare del nord Italia. In questo periodo e nei primi decenni del secolo successivo, il carattere autonomo e spontaneo degli orti urbani coesiste con iniziali forme di assegnazione e gestione di aree orticole messe in atto direttamente da imprenditori industriali attraverso i cosiddetti "villaggi operai".
Ma è con il boom della produzione industriale della seconda metà del XX° secolo che il fenomeno degli orti cittadini assume proporzioni importanti. Il grande sviluppo industriale che negli anni '50, '60 e '70 caratterizza fasce importanti del territorio settentrionale italiano investe in particolare le cosiddette aree periurbane, cioè quelle zone di "transizione" tra città e campagna destinate storicamente ad accogliere determinate attività (grandi impianti industriali, infrastrutture ferroviarie e aeroportuali, cimiteri, ecc.) e che in quegli anni furono inglobate all'interno delle città, caratterizzandosi però per il diffuso degrado e l'isolamento sociale tipici dei quartieri dell'estrema periferia cittadina. Sono queste le zone in cui saranno edificati i complessi abitativi destinati alla nuova manodopera industriale proveniente dalle regioni dell'Italia meridionale, e sono queste le aree in cui il fenomeno degli orti urbani avrà il suo massimo sviluppo.
Il caso di Torino è significativo a riguardo: nella città piemontese, nel 1980, su una popolazione residente di 1.143.263 abitanti risultava una superficie ortiva di 146.4 ettari. L'ampiezza del fenomeno spinse l'Amministrazione Comunale, nell'ambito di un ampio progetto di riqualificazione di aree marginali della città e di regolamentazione degli spazi ortivi in esse presenti, ad avviare il primo studio italiano sul fenomeno degli orti urbani. Il progetto fu preceduto da una attenta analisi del fenomeno sul campo (la prima del genere in Italia) dalla quale emerse che gli artefici del boom orticolo torinese erano gli immigrati meridionali: contadini, braccianti, pastori che, costretti a trasformarsi in operai nelle grandi fabbriche, mantenevano un rapporto con la loro cultura d'origine attraverso la coltivazione di decine di migliaia di piccoli appezzamenti, ricavati lungo le rive dei fiumi cittadini (Sangone, Stura, Dora, Po), lungo le reti ferroviarie, i tracciati viari e in qualunque altro pezzo di terreno residuale.
Un' integrazione al reddito, ottenuta con grande fatica (spesso i terreni si presentavano come vere e proprie discariche), ma anche la volontà di recuperare valori ed esperienze lontani attraverso strumenti come la terra e l'agricoltura legati al vissuto di questi nuovi contadini operai. L'orto dunque si rivelava elemento di identificazione per gli immigrati, ma non solo; esso rappresentava anche opportunità di svago, di impiego del tempo libero, un'occasione di ritrovo.
Il riconoscimento dell'importanza sociale del fenomeno orti urbani e l'esigenza di contenerne gli aspetti di spontaneità e abusivismo, si tradussero, negli anni '80, nella redazione dei primi regolamenti per l'assegnazione di aree orticole ai cittadini interessati da parte delle amministrazioni comunali. Collegati alle politiche a favore delle classi disagiate (anziani, disoccupati, disabili), i regolamenti per assegnazione degli orti in base a criteri sociali rappresentano il primo passo verso la fine della spontaneità del fenomeno.
Il primo regolamento italiano di orti sociali comunali fu redatto a Modena nel 1980, in virtù del quale furono assegnati, a pensionati di età superiore ai 55 anni, sei orti su un terreno suburbano non edificabile.
Da allora molte Amministrazioni comunali, soprattutto in Italia settentrionale, hanno fatto altrettanto, andando incontro a una sempre maggiore richiesta dei residenti di terra da coltivare.

 
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